Se ti diverti solo reagendo alle regole del gioco e non al suo mondo, forse stai giocando sbagliato.

Tra le varie tangenti scaturite dalla discussione attorno al GamerGate, una di quelle che sta più a cuore degli appassionati (anche nel nostro sito) è riassumibile nell’idea che i videogiochi debbano restare giochi. La di sviluppo indie ha creato molte opere che mettono il puro gameplay in secondo piano rispetto alla narrativa, ad un’idea, al design artistico. E la forte attrazione di molta critica verso questi prodotti innervosisce coloro che credono che il cuore dei videogiochi sia rappresentato dall’idea classica idea del medium, quella portata avanti dai Mario, Sonic, e oggi tenuta alta da grandi sviluppatori come Platinum Games o Ninja Theory.

Titoli celebri e recenti come Gone Home e Proteus, secondo alcuni, non dovrebbero essere considerati videogiochi, quanto piuttosto storie interattive. Nell’assenza di ostacoli precisi, quando la storia prende il sopravvento sulle meccaniche ludiche, l’idea stessa di gioco, secondo questo ragionamento, è tradita: giocare significa prima di tutto reagire a delle regole. Il giocatore ha di fronte una serie di obiettivi e ostacoli, e una serie di strumenti per superarli. Con la sua abilità, e con la sua intelligenza, deve trovare un modo per risolvere la sfida che si trova di fronte per completare il gioco (o raggiungere il punteggio il più alto possibile). In assenza di anche parte di questi elementi, è meglio trovare nuove definizioni per restare certi della “purezza” dell’idea di videogioco.

GH

Questa discussione, oggi, assume contorni ideologici, come se esistessero due visioni incompatibili e opposte riguardo a quello che il videogioco sia; e, da parte dei “tradizionalisti”, c’è una sensazione diffusa che chi chiede giochi più maturi, non necessariamente basati sul divertimento meccanico, si senta superiore agli altri, che in qualche modo consideri l’idea di divertimento come qualcosa di accessorio all’esperienza ludica. Quest’idea, però, contrasta con il modo in cui molti, tra cui chi scrive, interagisce da sempre con i videogiochi. Per chi ha sempre visto l’atto del giocare come qualcosa che va oltre la reazione alle sfide proposte dagli sviluppatori.

Ricordo le mie partite a Grand Theft Auto: Vice City. Gran parte della mia esperienza con quel gioco è stata definita dalle missioni scelte da Rockstar, obiettivi chiari, da risolvere con una serie di strumenti presenti nella finta Miami: c’è un ufficio con dei documenti che vanno rubati, e per arrivarci è necessario compiere una serie di salti nei tetti di alcuni dei grattacieli della città. Nei panni del gangster Tommy Vercetti arrivo nel luogo dove inizia la missione, salgo su una moto, raggiungo tutti i checkpoint che mi guidano verso il traguardo, e dopo una serie di tentativi ed errori arrivo al traguardo della missione. Tutto semplice, tutto meccanico e soddisfacente, pura reazione al design del gioco, con un po’ di spazio lasciato all’improvvisazione. Ma le mie memorie vanno molto oltre. Ricordo la mia casa, illuminata dalla luce del tramonto. Ricordo il momento in cui, alla guida di una macchina sportiva, guidavo a fianco del lungomare ascoltando Adam Ant o Michael Jackson. Ricordo la sensazione di vivere a Vice City, i colori pastello, la differenza tra il centro città e le zone rurali. Quando penso alle città dove ho vissuto, Vice City, Liberty City e Los Santos vengono in mente nonostante non ci abbia mai messo piede.

GTAVC

Sin da quando ho iniziato a giocare alla fine degli anni ‘80, gran parte del divertimento, gran parte di quello che considero “gioco”, è far sì che la mia fantasia, le mie sensazioni arricchiscano e si facciano arricchire dal mondo offerto dagli sviluppatori e dagli artisti del prodotto con cui sto passando tempo. Nonostante Vice City non sia un gioco di ruolo, il mio Tommy Vercetti aveva una vita interiore che mettevo in scena con il mio approccio al mondo di gioco. Per quanto possibile, evitavo di uccidere innocenti; spesso mi fermavo a correre per la spiaggia solo perché mi piaceva farlo. Tutte cose che Rockstar North non mi ha mai chiesto di fare, tutte cose per le quali non viene data nessuna ricompensa dal documento del gioco. Ma non di meno tutte azioni che hanno a che vedere con l’atto del giocare in modo fondamentale, che hanno reso l’esperienza di gioco più emozionante, profonda, e anche divertente.

I videogiochi vengono paragonati a mille medium diversi, ma non vengono mai associati abbastanza all’improvvisazione. Così come due attori possono creare una scena dal nulla, con a loro disposizione solo la loro capacità di reagire a quello che l’altro dice, gli sviluppatori di un gioco non solo creano un mondo, ma devono anche anticipare tutto quello che il giocatore può fare dentro allo stesso. Gli sviluppatori più abili hanno la capacità di creare mondi che possono essere arricchiti dalla fantasia del giocatore, dalla narrativa che viene costruita dal dialogo tra il mondo di gioco e l’immaginazione di chi ci entra dentro. L’esperienza videoludica è un dialogo tra chi fa il gioco e chi lo gioca. È il motivo per cui i la serie Sim funziona; per cui Minecraft è diventato un fenomeno enorme ed imitato da molti.

Gone Home e Proteus sono titoli che permettono di mettere in primo piano questa idea di gioco. Camminando nella casa di Gone Home, il giocatore può assaporare la vita della protagonista di cui si immedesima, decidere di prendere il tempo che serve, creare narrative parallele, decidere di creare una protagonista più o meno inquisitiva, impaurita, scocciata da sua sorella o intrigata dal vedere la sua casa trasformata in un puzzle. Attraversando il mondo di Proteus, incerti sul perché ci si trovi sulle isole generate dal gioco, si possono creare infinite ipotesi narrative, dare significato ai vari simboli creati dal gioco, e usare la musica per entrare in una trance creativa che ha tanto a che vedere con le nostre idee e le nostre esperienze che con quello che ci viene offerto dal gioco. In questo modo l’art design e la scrittura diventano interattivi, perché aiutano l’immedesimazione, rendono il gioco più ricco, a patto di trovare soddisfazione e ricompense anche da azioni che non vengono esplicitamente premiate dal gioco.

PROTEUS

Per tornare ad oggi, al pastone creato dal GameGate, non è un caso che chi apprezza questo tipo di esperienza sia anche particolarmente attento ai contenuti dei mondi che visitano nei giochi. L’idea che giocare sia un’atto che va oltre l’idea di “completare le sfide” va a braccetto con un desiderio di mondi più complessi, meno stereotipati, con personaggi più sfaccettati, diversi da quelli che tipicamente vediamo nei titoli più celebri che troviamo sugli scaffali. Se una ragazza vuole sentirsi protagonista di un gioco, ma questo non offre alcuno spazio a protagonisti femminili, questo può rendere più difficile l’immedesimazione (non sempre, ma succede). Se il giocatore vuole passare ore in un mondo virtuale e questo dimostra di capire la complessità delle relazioni razziali e di genere sessuale nel nostro mondo, se gli sviluppatori creano un mondo coerente, vivo e rispettoso dell’intelligenza di chi gioca le possibilità di essere sorpresi, di immedesimarsi e di avere un’esperienza di gioco più divertente aumentano esponenzialmente. Quando tutti questi elementi funzionano, camminare lentamente in un corridoio di una casa vuota può essere elettrizzante quanto sfiorare venti auto di seguito in Burnout.

Per questo una moltitudine di persone supporta titoli che vanno oltre l’idea tipica di videogioco: non perché vogliano che i giochi vecchio stile muoiano; non perché vogliano rompere il palloncino a chi si diverte con giochi più leggeri e old school. Molti tra loro che chiedono più complessità si sanno divertire anche con Bayonetta (il miglior gioco della scorsa generazione), Mario Bros., Virtua Figher, Dead or Alive. Ma considerano l’atto del giocare come qualcosa che va oltre l’idea di “finire un gioco”, e si divertono di più quando un titolo dà loro spazio per affrontare il suo mondo in questo modo.

Chi apprezza questa idea di videogioco chiede opere più complesse, più “mature”, e per molti questo minaccia l’anima classica dei videogiochi, quella più spensierata, leggera, e volte caciarona e giovanile; questi esprimono le loro paure al grido di “lasciateci giocare”, un urlo rivolto ad un nemico immaginario in una lotta che esiste solo nella mente di chi ci si trova in mezzo: recensioni come quelle di Bayonetta 2su Polygon non sono un segnale di una tendenza diffusa; sono esempi di giornalismo mediocre, incapace di interpretare correttamente il tono del testo che analizzano. Essere offesi da Bayonetta è più che altro sintomo di una profonda mancanza di senso dell’umorismo, e il gioco Platinum ha preso 10/10 su Gamespot, 5/5 su GiantBomb, e 9/10 su Eurogamer, segnale che gran parte dell’industria offre opinioni diverse, e sa distinguere tra politica, sociale e intrattenimento.

BAYO

Praticamente tutti coloro che parlano di videogiochi vogliono giocare e vogliono divertirsi, anche coloro che hanno a cuore l’evoluzione del medium, senza paura di “romperlo”. Discussioni di questo tipo sono state fatte in altri medium decenni fa, sopratutto negli anni della rivoluzione culturale, tra i ’60 e i ’70, anni in cui il femminismo e le lotte razziali sono entrate nella cultura popolare. Movimenti che hanno dato vita a tante opere impegnate ma non per questo hanno impedito l’esistenza di American Pie, Piranha 3D, Jackass, The Expendablese decine di film, libri e serie TV leggere ed “ignoranti”. Per questo i timori dei giocatori più conservatori sono completamente fuori luogo, le strane paranoie di una enorme maggioranza, il gigante che ha paura della formica. La scena indie, d’altronde, oltre a Gone Home, Proteus e colleghi, ha anche dato vita a decine di fantastici giochi old school, da Velocity 2X a Super Meat Boy passando per Ridicolous Fishing, Dead Nation, FTL

Che problema c’è se una minoranza vuole ricavarsi una nicchia per esperienze di tipo diverso, per fare spazio ad un pubblico in continua espansione? Nessuno vuole impedirvi di giocare e di divertirvi, anzi; forse ci sono modi di giocare ancora più divertenti di quelli che conoscete, se oltre a reagire alle sfide di un gioco decidete di reagire al mondo che racconta.



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Emilio Bellu

Scrittore, cineasta, giornalista, fotografo, musicista e organizzatore di cose. In pratica è come Prince, solo leggermente più alto e sardo. Al momento è di base a Praga, Repubblica Ceca, tra le altre cose perché gli piace l'Europa.

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15 Comments

  1. A me più che altro sembra senza senso la schizofrenia di certi videogiocatori: disperatamente alla ricerca del riconoscimento di essere almeno alla pari degli appassionati di altri media (con riconoscimenti, eventi, discussioni sul medium, critiche ai giornalistiche parlano alla cazzo di cane, ecc.), poi appena si palesano le prime discussioni DOVUTE a chi vuole entrare nello stesso club delle altre arti “eh ma no, son solo giochetti, non ci rompete i coglioni se tutte le protagoniste di questo gioco fantasy hanno armature tanga, VOGLIAMO SOLO DIVERTIRCI CAPITE??”. Ecco, molti si comportano così e non vedono la contraddizione.

  2. Partiamo da un presupposto fondamentale: affermare la superiorità della narrazione sulla giocabilità o su qualsiasi altro elemento “tipico” di un videogioco, sia esso la risposta ai comandi o il level design, significa disconoscere 20 anni di videogioco arcade, ovvero le basi, le fondamenta su cui si posa l’intera industry/movimento/medium. Sono certo che nessuno avrebbe il coraggio di affermare una cosa del genere, giusto?

    Giusto.

    Bene, detto ciò: ben venga la narrazione, ma solo se unita e funzionale ad un gameplay all’altezza della situazione e ben vengano le analisi critiche del giornalismo videoludico (drammaticamente a corto di argomenti, a quanto vedo), purchè al centro dell’attenzione resti il gioco. E, attenzione, non si tratta di valutare un gioco seguendo i parametri degli anni ’80 e ’90 grafica/sonoro/giocabilità/longevità. Anzi. Significa riconoscere ed esaltare la meccanica sottesa all’azione ludica e relativo appagamento, la realizzazione di un level design che resti impresso nella memoria, la creazione di una missione particolare. Poi si uno, uhm, si diverte a fare l’esegesi delle cut-scene di Metal Gear Solid, è libero di farlo.

    1. Concordo con Andrea. Senza entrare nella diatriba che coinvolge indie coi capelli colorati a cazzo vs quelli che taggano giochi come “walking simulator” su Steam, la questione in realtà può essere posta come: “cos’è che i videogiochi fanno bene e cosa fanno male”. Perché Proteus, da qualunque lato lo si guardi, è un bel contenitore vuoto, e hai voglia a mettere le musichette interattive pling-plong, ma resta un’esperienza superficiale. Allo stesso modo un Dear Esther è suggestivo ma manca di sostanza.

      Per fare un esempio usando un altro medium: nessuno si sognerebbe di dire che il cinema non deve essere un mezzo visivo, e che ci può essere cinema che non prenda in considerazione l’aspetto visivo. Ecco, quando qualcuno parla di videogiochi senza interattività o “divertimento” (inteso come piacere e interesse per l’interazione) a me suona come qualcuno che parla di musica senza melodia e ritmo o cinema senza immagini. Ci potranno pure essere casi limite in cui questi concetti hanno senso, ma in genere si vuole far fare a un mezzo ciò che, per mille diverse ragioni, non può fare bene.

      Il videogioco è un buon mezzo per la narrazione tradizionale tanto quanto il romanzo è un buon mezzo per le scene d’azione. Ovvero: c’è chi riesce a far funzionare la cosa, ma in linea di massima i romanzi non sono ottimi mezzi per trasmettere l’azione così come i videogiochi non sono ottimi mezzi per raccontare una storia lineare.

      @tommaso: no, le analisi femministe o ispirate alla scuola di Francoforte non sono un prerequisito per entrare nel “club delle arti” (brrr, l’idea del circoletto delle arti serie mi fa quasi perdere interesse per i videogiochi). Un’analisi deve essere convincente e deve prendere in considerazione il contesto dell’opera analizzata. E, anche in quel caso, un’analisi resta criticabile come qualsiasi altra cosa. Non è che prendi sul serio uno che dice che Harry Potter è il primo passo verso il satanismo solo perché “la letteratura è arte e l’arte può essere criticata”. Di ragionamenti seri sui videogiochi ce ne è tanti; i dibattiti sulle armature-bikini come istigazioni al sessismo non sono fra questi.

      1. Sono d’accordo sul fatto che il videogioco si presti ad un certo tipo di esperienza più che ad altre, è l’idea che la presenza di un certo tipo di giochi “alternativi” possa mettere in pericolo il medium togliendo spazio ad altri tipi di giochi; c’è spazio per tutti, e la sperimentazione non può se non arricchire il medium.

        Sulla critica, direi che il problema è che un sacco di letteratura accademica è davvero pessima, piena di forzature che vorrebbero far risaltare l’intelligenza di chi scrive, che abbindolano molti ma non aggiungono nulla alla discussione. Ma è bene che esista, perché spesso può offrire qualcosa. Di nuovo, in linea di massima più attenzione e più varietà è cosa buona, anche se significa dover lavorare un po’ di più sulla scrematura per trovare roba di qualità.

        1. Sono d’accordissimo, tanto che spesso questi giochi li compro, li gioco e li apprezzo (Paper Please rulla, per esempio). Ma “l’idea che la presenza di un certo tipo di giochi “alternativi” possa mettere in pericolo il medium togliendo spazio ad altri tipi di giochi” secondo me è un triplo strawman carpiato. Questa idea io non l’ho vista espressa praticamente da nessuna parte. Non ho mai sentito nessuno dire che questi giochi non dovrebbero esistere. Dire “fanno cacare” o “non sono veri giochi” è superficiale ma rientra nel sacrosanto diritto di critica.
          Il fatto che altri designer o alcuni giornalisti siano interessati alle pippette intimiste di Anna Anthropy o Zoe Quinn non vuol dire che la maggior parte dei videogiocatori sia altrettanto interessata. Anzi, nei videogiochi c’è una situazione che non ho mai visto in ambito musicale o cinematografico: la copertura di giochi indie minori e di critiche “accademiche” (fra virgolette perché quello i video di Sarkesiaan hanno meno rigore accademico di un comizio di Grillo) è sproporzionatamente grande nella stampa videoludica. RPS che parla dei giochi di Porpentine fatti con Twine è come Rolling Stone che scrive di musica minimalista contemporanea.
          Io credo che alla base di questa guerra culturale ci sia, molto semplicemente, il fatto che nei videogiochi non esiste una *intellighenzia* con valori politici ed estetici condivisi. I videogiochi sono ancora cultura pop “bassa”. E siccome sono convinto che qualsiasi arte – dal design industriale al cinema – perda vivacità, capacità espressiva e varietà quando si “eleva” ad Arte e Cultura seria, non credo che sia poi un male. I videogiochi mi piacciono anche per il fatto che siano intrisecamente popolari, pulp, puzzoni e più simili alla tv che al cinema.

          1. Pure a me, non a caso sto risparmiando per comprare un Wii U per giocare a Bayonetta 2 ^_^

            Dire che un gioco è brutto va benissimo, ma dire che Gone Home Proteus e compagnia “non sono veri giochi” ha un peso, perché delegittima la loro stessa natura, è un modo per dire che non dovrebbero essere discussi insieme al resto dell’industria; e meno esposizione mediatica danneggerebbe la sopravvivenza della scena (se un albero cade e nessuno lo vede etc. etc. etc.)

            Negli ultimi mesi si è creata una “bolla” per cui si parla di questi argomenti in maniera ossessiva, ma credo sia solo un momento di passaggio. Prima che succedesse, Sarkeesian e compagnia erano fenomeni più di nicchia, com’è normale che sia, il paradosso è che gli attacchi verso di loro ne hanno fatto star (un meccanismo naturale che per molti è segnale di cospirazione, perché INTERNET).

            È vero che Polygon, Kotaku, Gamasutra, The Escapist e compagnia parlano spesso di VG in ottica più “sociale” ed accademica, ma il fatto che siano visti come siti importanti è perché hanno comunità molto attive, ma non sono particolarmente grandi rispetto a, per dire, IGN o GameTrailers, che continuano ad avere un traffico decisamente maggiore. Ci un sacco di grossi siti online che vengono frequentati da chi non vuole leggere approfondimenti, per non parlare di canali Twitch e YouTube, che son sempre più importanti.

            È abbastanza vero però che rispetto ad altre industrie gli indie hanno un ruolo molto grosso, ma è un fenomeno facile da spiegare vista l’evoluzione dell’industria: i grossi publisher si stanno concentrando su pochi, enormi titoli, e la chiusura di studi di mezze dimensioni ha creato una specie di voragine che la scena indie sta riempendo, a suo modo. Oggi come oggi se un sito/rivista parlasse solo di giochi AAA non credo che avrebbe molto di cui parlare giorno per giorno ^_^’

          2. Quelli che frignano di cospirazioni non hanno semplicemente la capacità intellettuale di esprimere in maniera più focalizzata ciò di cui parlano. Ma, a parte il tono e le argomentazioni deboli, è vero che molti siti e molti sviluppatori hanno proposto chiavi di lettura estreme e tirate polemiche completamente fuori misura. Fuori misura perché, dal punto di vista testuale, i videogiochi sono forse il mezzo più accogliente e più mainstream che possa esserci. Da Candy Crush a Minecraft, passando per FIFA e The Sims (e già questi 4 franchise sono forse l’80% dei videogiochi giocati in questo momento), i videogiochi mainstream sono forse il mezzo meno sessista, omofobo ed esclusivo che possa esserci. Rispetto a quello che si vede al cinema o nella musica pop-rock-rap, i videogiochi odierni sono completamente trasversali e completamente innocui. Quando si va nelle sottocomunità del gioco online o dei giochi multiplayer competitivi si entra in un lazzaretto, è vero, ma quello riguarda chiunque, non solo le donne o le minoranze.

            Il livello di scrutinio e di disonestà intellettuale da parte di certa critica e di certi sviluppatori ha raggiunto livelli comici – l’hai letto l’articolo di Polygon su come il tutorial dello stealth di un gioco in cui ammazzi orchi sia “problematic”? http://www.polygon.com/2014/10/1/6880061/shadow-mordor-kissing-design. Il fatto stesso che il bersaglio preferito delle critiche di Sarkesiaan siano giochi usciti almeno una decina (se non una ventina) di anni fa, quando l’omofobia e il sessimo erano, per dire, due dei cardini delle sitcom alla Friends, è una chiara dimostrazione che la situazione recente non è drammatica come la si vuole dipingere.

            In un contesto del genere è inevitabile che il riflusso dovesse arrivare. Ed è arrivato, violentissimo. Purtroppo a cavalcare questa reazione ci sono un sacco di personaggi e atteggiamenti, loro sì, conservatori e sessisti. Ma dipingerlo come un attacco è ignorante, secondo me. Si tratta di una reazione. Sproporzionata e sbagliata nei modi e nelle fatti quanto vuoi, ma comunque una reazione.

          3. Se guardi al videogioco in toto sono piuttosto d’accordo, ma c’è una tendenza in molti giochi particolarmente grossi (cioè action e shooter, in pratica) ad essere molto dude-oriented, secondo me questo è abbastanza innegabile, e vista l’importanza che questi giochi hanno nell’immaginario collettivo, ha senso che ci sia una discussione attorno a questo.

            Detto questo, son d’accordo che puntare su questi argomenti sia diventato in gran parte dei casi un esempio subdolo di click bait, è pieno di articoli forzatissimi che crollano dopo tre secondi di analisi, anche i video della Sarkeesian in questo senso hanno molti momenti deboli. Ma il fatto che la reazione abbia assunto questi connotati è significativo, anche se secondo me ha più a che vedere con le meccaniche delle discussioni in rete che con la comunità dei videogiocatori (per esempio: https://twitter.com/waxpancake/status/524263245364744194)

          4. Mah, uno zoccolo duro di 100 persone che fanno il 24% delle discussioni su un argomento non mi pare particolarmente strano. Non che i developer o i giornalisti influenti su twitter siano molti di più, per dire.

            Per il resto: il fatto che i megablockbuster ad alto budget e basso rischio artistico siano rivolti a uomini nei due target di mercato 18-24 e 24-35 mi sembra assolutamente pacifico, visto che si parla di un buon 90% del pubblico di riferimento. E lo dico da persona che lavora nel marketing: quando si tratta di titoli non-mobile e non-RPG il pubblico femminile o di età diverse da quelle sopraindicate è ESTREMAMENTE ridotto. Il famoso 50% di donne che videogiocano è in realtà meno del 15% se si escludono i giochi mobile/F2P. E anche considerando i blockbuster per ciò che sono (prodotti di intrattenimento con un target molto preciso tanto quanto le soap opera) i titoli davvero discutibili dal pdv etico (quelli veramente offensivi) sono una manciata per generazione. Il problema è che l’intero movimento “progressista” (se così vogliamo chiamarlo per semplicità) è basato su una gigantesca moralistic fallacy http://en.wikipedia.org/wiki/Moralistic_fallacy

            per cui sarebbe bello se ci fossero videogiochi d’azione mainstream ad alto budget per ogni tipo di videogiocatore e se questi non sono abbastanza numerosi è perché il mercato dei videogiochi è esclusivo e sessista. Tutto ciò, naturalmente, ha senso solo se si ignora che, di fatto, non c’è un mercato che possa sostenere giochi d’azione mainstream ad alto budget esplicitamente rivolti a ogni minoranza/età/identità di genere, perché quegli altri settori di pubblico sono felicissimi coi loro Minecraft/Candy Crush/FIFA etc.
            Quindi si ribalta domanda ed offerta e causa ed effetto.

          5. Comunque vaffancuore ai commenti. Questo poteva benissimo essere un articolo/discussione sull’argomento.

          6. :D
            In effetti l’articolo/discussione è un format che funzionerebbe assai in situazioni complesse come questa.

            Grazie per le statistiche, non avevo un’idea precisa dei numeri, e hanno senso assai. Poi credo che per quanto spesso gli articoli che parlano di questi argomenti si basino in effetti su fallacy come quella che citi (che secondo me ha radici nel mondo accademico, in cui è facile perdere il senso del reale e sostituirlo con qualcosa di diverso), dietro c’è anche un desiderio genuino di vedere action/shooter diversi dal solito, sia da parte di donne che uomini.

            Questo è anche un sintomo di come funziona la critica: è gente che gioca a mezzo quintale di giochi per cui finisce per essere attirata da cose che non necessariamente interessano chi gioca come un essere umano normale, trovare vie di mezzo non è facilissimo.

          7. Ma infatti io non dico certo che “va tutto bene così com’è”. Ci sono enormi margini di miglioramento. Per dire, io tirerò un sospiro di sollievo nel momento in cui i team di sviluppo si renderanno conto che non tutto deve essere cupo, brutale e scuro per essere figo. Magari Guardians of the Galaxy ricorderà a qualcuno che ci si può divertire anche senza fare gli adolescenti ombrosi.
            Ma, per quanto mi riguarda, questo desiderio di miglioramento del tono e del contenuto dei giochi action AAA ha una motivazione estetica, non etica. Il barbaro col fisico da culturista e l’amazzone col bikini di leopardo sono esteticamente superati e fiacchi, non eticamente problematici. Io mi oppongo all’idea che le prostitute in GTA abbiano un impatto sul modo in cui i giocatori, nella vita reale, vedono e trattano le donne (come dice Sarkesiaan nell’ultimo TvW). Voglio i fottuti dati, sennò siamo tali e quali al livello “Alice Cooper converte i ragazzini al satanismo”. Per me il problema nasce nel momento in cui “non mi piace” diventa “è dannoso”.

          8. Son d’accordissimo; in generale credo che il moralismo sia dannoso, nel 90% dei casi è proprio l’approccio sbagliato. In questo senso credo anche io che, come dica Andrea, derivi da una certa ansia di farsi prendere sul serio. Per questo sono un grande fan di Giant Bomb e Penny Arcade (o Adam Sessler e pure Jim Sterling), gente seria che non ha nessuna necessità di essere seriosa o moralista, è un equilibrio difficile da mantenere.

  3. Concordo con Andrea. In un videogioco si può inserire e sperimentare tutto ma ciò che è di fondamentale importanza è la presenza di un solido gameplay, altrimenti si perde il senso della scelta di sviluppare un videogioco.
    Quindi giochi come Journey, Gone Home, The Stanley Parable, volendo anche Heavy Rain, non sono un problema, anzi, sono segno di una maturazione del videogioco, è un problema invece trovarsi ore di cut-scene in cui non si può fare nulla.

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